Questi Ragazzi che non ascoltano più gli Insegnanti
Quanta flessibilità richiede la loro gestione educativa e quanta capacità nella gestione dei conflitti!
Mai come in questi ultimi anni vengono evidenziati sia dagli insegnanti che dai genitori delle importanti difficoltà nella gestione del comportamento e nel rispetto delle regole da parte dei ragazzi, alunni o figli, che sembrano refrattari al rispetto delle regole, talora disinteressati da sembrare amorfi, oppure arrabbiati senza uno scopo verso cui dirigere la rabbia trasformandola in energia per raggiungere obiettivi superiori.
In particolar modo nelle classi, le cause del “cattivo comportamento” sembrano essere sia didattiche che relazionali.
In un mondo in cui l’informazione è a disposizione di tutti, di qualità o meno non importa, sembra che il ruolo dell’insegnante sia assolutamente secondario o addirittura inutile per favorire un pensiero critico nei ragazzi o per permettere loro di raggiungere un domani soddisfazione e successo.
È vero che l’attenzione degli alunni si è talmente ridotta da non riuscire a reggere una lezione frontale, e spesso il bisogno di attenzione e di riconoscimento delle proprie capacità può essere tale, qualora il ragazzo sia in difficoltà, da manifestarsi come disturbo del comportamento pur di catturare l’attenzione del gruppo classe.
All’insegnante serve allora una marcia in più che gli permetta di cogliere quelle che sono le leve motivazionali dei ragazzi, ispirarli, favorire l’appartenenza al gruppo classe al di là dei messaggi su telefono che hanno sostituito i confronti faccia a faccia.
Favorire l’appartenenza al gruppo e l’interdipendenza funzionale ed il risultato per un insegnante diventa garanzia di un’opportunità unica per i ragazzi di crescere in relazione con gli altri pari, di riconoscere se stessi nel gruppo e grazie al gruppo.
L’Insegnante può aiutare i ragazzi nel costruire un sistema di gratificazione e conoscenza di sé che passa attraverso la famosa triade di McClelland, ovvero la necessità di ognuno di noi di sentirsi capace, di differenziarsi dagli altri per qualche abilità, di essere al centro dell’attenzione e delle lodi del gruppo di riferimento.
Ma l’urgenza “soggettiva” dell’alunno nel definirsi socialmente è più rilevante della coscienza dell’utilità dell’imparare e dunque un comportamento deviante o inadeguato può essere vissuto dall’alunno come unica modalità per trovare spazio nel gruppo classe, generando conflitto con l’adulto docente e anche con altri compagni.
Tanti studi hanno dimostrato come la punizione in realtà sia gran poco efficace con questi ragazzi.
Servono dunque strumenti molto più flessibili a seconda delle condizioni presenti:
Se dietro il problema del comportamento si manifesta una sofferenza vera e propria può essere utile un approccio dialogico che crei empatia tra il docente e il singolo ragazzo in un contesto dedicato, in modo da creare un rapporto di fiducia e di apertura, possibilità certe volte unica per un ragazzo di conoscere pattern di attaccamento diversi da quelli disfunzionali magari sperimentati in famiglia; in questi casi è utile un modello di intervento come quello dialogico di Stefano Rossi.
Se invece la gestione della classe e del ragazzo risulta particolarmente problematica e non vi sono le basi per poter intervenire in una modalità dialogica ed empatica, bisogna risalire ai bisogni base di ogni singolo individuo creando un vantaggio dello stare in gruppo secondo le regole definite dal docente, garante del rispetto reciproco, oppure intervenire su alcuni comportamenti, per esempio oppositivo-provocatori, con la pressione sociale, prescrittiva del comportamento disfunzionale, prevista da interventi di terapia breve strategica di Giorgio Nardone.
Qualora vi sia una classe collaborativa, le gratificazioni e le punizioni (mancate gratificazioni) possono essere gestite sul singolo attraverso la classe con un modello integrato psico educativo che appoggia il proprio valore sulla appartenenza alla classe, come proposto da Fabio Celi.
Tante sono dunque le strategie necessarie per entrare in rapporto in maniera positiva con alunni e con le famiglie.
Il conflitto di per sé non è infatti negativo se viene affrontato in modalità corretta ovvero come occasione di crescita e di cambiamento all’interno dell’istituzione, secondo un approccio proposto da Daniele Novara in base al quale il “so-stare” nel conflitto è un’occasione di crescita.
Per scegliere il modello migliore di intervento all’interno della singola classe o della singola situazione serve una conoscenza del docente, di se stesso, della propria storia, e le proprie modalità educative apprese e agite, con grande consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri bisogni e desideri, di ciò che considera lesivo della sua immagine o dignità, nel confronto con gli altri.
Molte volte, parafrasando quanto diceva Albert Ellis, padre della Terapia razionale emotiva, è ciò che noi pensiamo di quello che sta accadendo a generare sofferenza che non quello che accade realmente.
Il lavoro dell’insegnante diventa allora sfidante, deve arricchirsi di competenze, di conoscenze di modelli diversi di intervento, di conoscenze su se stesso e i propri sistemi di lettura della realtà, di grande flessibilità nel passare da una modalità di gestione a un’altra mantenendo saldi i propri valori e il proprio entusiasmo, consapevole dell’importanza unica che la sua presenza nella vita di un alunno potrebbe avere.